1  Un errore clamoroso

È un semplice dato di fatto che Marx ha platealmente sbagliato nel prevedere una rivoluzione comunista in Inghilterra, ma mi sembra che per i più rimanga oscuro l’errore di analisi che lo portò a sbagliare. Si tratta di un errore che ha avuto, e può avere tuttora, pesanti conseguenze sul piano politico.

Nella Introduzione alla settima sezione del primo libro del Capitale, dedicata al processo di accumulazione del capitale, Marx introduce due semplificazioni: «Qui dunque supponiamo, da una parte, che il capitalista che produce la merce la venda al suo valore […] Dall’altra parte considereremo il produttore capitalistico come proprietario di tutto il plusvalore» (Marx 1867, t. 3, p. 8).1 Da una parte prescinde dalla cosiddetta trasformazione dei valori in prezzi, dall’altra si scosta più nettamente dalla realtà, in quanto «il capitalista che produce il plusvalore […] non è affatto l’ultimo suo proprietario». Il plusvalore viene infatti scomposto in «frammenti» che «toccano a differenti categorie di persone e vengono ad avere forme differenti, autonome fra loro, come profitto, interesse, guadagno commerciale, rendita fondiaria, ecc.» Si tratta di «forme trasmutate del plusvalore» la cui trattazione viene rimandata al libro terzo (Marx 1867, t. 3, pp. 7-8).

Nella settima sezione del primo libro del Capitale Marx si limita così a una società ipersemplificata, in cui compaiono solo capitalisti e lavoratori da loro assunti (non c’è il commercio, non c’è il sistema bancario ecc.), allo scopo sicuramente legittimo di descrivere meglio l’accumulazione di capitale. Tuttavia, nelle pagine dedicate alla tendenza storica dell’accumulazione, Marx “dimentica” le semplificazioni e crede di potersi basare sulla dinamica di sole due classi per prevedere il superamento del capitalismo non solo «con l’ineluttabilità di un processo naturale», ma anche in tempi molto più rapidi di quelli richiesti per la transizione dal feudalesimo al capitalismo (Marx 1867, cap. 24, t. 3, pp. 223-224).

Non può allora stupire che quella presunta tendenza storica sia stata nettamente smentita dai fatti. Viene piuttosto da chiedersi quali conseguenze abbia avuto l’errore di Marx, cosa si possa eventualmente conservare della sua analisi.

1.1 Valore e plusvalore

Proverò a riepilogare molto sinteticamente il percorso che conduce Marx a prevedere un rapido superamento del capitalismo. Questi primi cenni appariranno noiosi e imprecisi a chi abbia familiarità con Marx, ma già il paragrafo successivo potrà riservare qualche sorpresa.

Secondo gli economisti classici, da Adam Smith a John Stuart Mill e poi a Marx, la fonte del valore è il lavoro: una merce vale più di un’altra se richiede più lavoro (diretto e indiretto) per essere prodotta. Tutti loro, inoltre, condividono la teoria secondo cui il salario ha un livello naturale costituito da quanto necessario al lavoratore per sopravvivere e riprodursi, niente di meno (per ovvi motivi) ma anche niente di più.

Nella sistemazione data da Marx, il capitalista acquista i mezzi di produzione (impianti, macchinari, attrezzature, materie prime, semilavorati) e anticipa al lavoratore il denaro con cui questi potrà procurarsi il necessario per vivere. I mezzi di produzione non creano nuovo valore, si limitano a trasferire il loro valore nel prodotto. I lavoratori, invece, generano nuovo valore: il capitalista paga al lavoratore il salario, ma il lavoratore, oltre a riprodurre il valore dei suoi mezzi di sussistenza, produce un valore extra detto plusvalore.

Il capitale anticipato per la produzione si scinde in due parti, \(C=c+v\), dove \(c\) è il capitale costante (il valore dei mezzi di produzione che viene solo trasferito nel prodotto, senza creare nuovo valore) mentre \(v\) è il capitale variabile, il salario pagato al lavoratore perché riproduca il valore dei mezzi di sussistenza e crei inoltre nuovo valore. Il risultato sarà un capitale maggiore \(C'=c+v+pv\), dove \(pv\) è il plusvalore. Ad esempio, supponendo una giornata lavorativa di 12 ore, 6 delle quali servano a riprodurre il valore dei mezzi di sussistenza, il capitalista anticipa \(C=410+90=500\) e ne ottiene \(C'=410+90+90=590\). Il rapporto \(pv/v\), pari al \(100\%\) nell’esempio, viene detto saggio del plusvalore (Marx 1867, cap. 7, t. 1, pp. 231-237).

In prima approssimazione, il capitalista anticipa \(500\), incassa \(590\) con la vendita del prodotto e ottiene un guadagno (un profitto) di \(90\), \(pv/(c+v)=90/500=18\%\) in termini percentuali. In realtà il passaggio dal plusvalore al profitto è lungo e tortuoso e mi limiterò a un breve accenno nel paragrafo 1.3.1. È chiaro in ogni caso che per aumentare il saggio del profitto il capitalista deve aumentare il numeratore, cioè il plusvalore.

Una prima soluzione consiste nell’aumento del plusvalore assoluto attraverso l’allungamento della giornata lavorativa. Supponendo di partire da \(C=410+90=500\) e da una giornata lavorativa di 10 ore (6 delle quali servano a riprodurre il valore dei mezzi di sussistenza dei lavoratori, restandone solo 4 per il plusvalore), si giungerebbe a \(C''=410+90+60=560\). Un primo modo di aumentare il guadagno del capitalista consiste nel prolungare la giornata lavorativa a 12 ore per ottenere quanto visto sopra, \(C'=410+90+90=590\). È evidente, peraltro, che una tale soluzione incontra limiti insormontabili, se non altro perché un giorno dura “solo” 24 ore.

Un’altra soluzione consiste nell’aumentare il plusvalore relativo, diminuendo la parte della giornata lavorativa destinata a riprodurre il valore dei mezzi di sussistenza dei lavoratori. Ciò si ottiene grazie a un aumento della forza produttiva del lavoro, in modo da rendere possibile la riduzione del tempo di lavoro necessario a produrre i mezzi di sussistenza2 e, con ciò, del loro valore. Ad esempio, se tale tempo si riduce alla metà, da \(C=410+90\) che diventava \(C'=410+90+90=590\) si giunge a \(C=410+45\) che diventa \(C'=410+45+135\). Il plusvalore aumenta così da \(90\) a \(135\), ferma restando la durata della giornata lavorativa.

Naturalmente il singolo capitalista non può intervenire sul processo di produzione dei mezzi di sussistenza dei lavoratori (a meno che non li produca lui stesso). In generale, però, a ciascun capitalista conviene aumentare la forza produttiva del lavoro (attraverso una nuova organizzazione del lavoro, la sostituzione di uomini con macchine ecc.) in quanto, se il suo prodotto richiede un minore tempo di lavoro e pertanto ha un valore minore, può essere venduto a un prezzo minore rispetto ai concorrenti. I concorrenti, a loro volta, saranno spinti a seguirne l’esempio per non essere espulsi dal mercato. Si giunge sistematicamente a una graduale riduzione del tempo di lavoro necessario a produrre qualsiasi merce, compresi i mezzi di sussistenza dei lavoratori: «È quindi istinto immanente e tendenza costante del capitale aumentare la forza produttiva del lavoro per ridurre più a buon mercato la merce, e con la riduzione più a buon mercato della merce ridurre più a buon mercato l’operaio stesso» (Marx 1867, cap. 10, t. 2, p. 15).

1.2 Macchine e grande industria

Il progressivo aumento della forza produttiva del lavoro è strettamente connesso al graduale affermarsi della produzione capitalistica: da produttori isolati e relativamente indipendenti si passa alla cooperazione, in cui molte persone «lavorano l’una accanto all’altra e l’una assieme all’altra secondo un piano, in uno stesso processo di produzione, o in processi di produzione differenti ma connessi» (Marx 1867, cap. 11), poi alla manifattura, in cui alla combinazione di mestieri indipendenti subentra la divisione del lavoro, la «disgregazione d’una attività artigianale nelle sue differenti operazioni parziali» (Marx 1867, cap. 12), infine alla grande industria, in cui il lavoro è svolto da macchine di cui i lavoratori sono semplici appendici (Marx 1867, cap. 13).

La diffusione delle macchine ha molteplici conseguenze, oltre all’aumento del plusvalore relativo (come appena visto). Tra l’altro, la minore importanza della forza muscolare rende possibile ricorrere sempre più al lavoro di donne e ragazzi (Marx 1867, cap. 13 §3.a).

Gli effetti sul plusvalore sono comunque di vario tipo. In primo luogo,

nell’uso del macchinario per la produzione di plusvalore vi è una contraddizione immanente, giacché quest’uso ingrandisce uno dei fattori del plusvalore che fornisce un capitale di una grandezza data ossia il saggio del plusvalore, soltando diminuendo l’altro fattore, il numero degli operai (Marx 1867, cap. 13 §3.b, t. 2, p. 112).

In altri termini, aumenta il rapporto \(p/v\), ma sia il plusvalore \(p\) che il capitale variabile \(v\) diminuiscono relativamente al capitale costante \(c\) per la sostituzione di parte dei lavoratori con macchine, diminuzione cui il capitale reagisce prolungando la giornata lavorativa (Marx 1867, cap. 13 §3.b) e aumentando l’intensità del lavoro (Marx 1867, cap.13 §3.c).

Diminuirebbe anche la massa del plusvalore, non solo il suo rapporto col capitale costante, se la quantità complessiva del prodotto restasse invariata. In realtà, però, non è così perché le macchine diminuiscono il valore unitario del prodotto aumentando la quantità prodotta nell’unità di tempo. Si possono così vendere agevolmente quantità sempre maggiori. Alla produzione di merci si aggiunge, inoltre, la produzione di macchine prima per il prodotto finito, poi per i beni intermedi e la materia prima, che vengono anch’essi prodotti in maggiore quantità e venduti a prezzi unitari più bassi.

La disponibilità di materia prima e semilavorati in grandi quantità e a buon prezzo fa sì che aumenti in un primo momento il numero di piccoli produttori che li lavorano, fino a che non vengono anch’essi sostituiti da macchine. Ad esempio, «con la sovrabbondanza delle stoffe da vestiario prodotte a macchina aumenta il numero dei sarti, delle sartine, delle cucitrici, ecc., finché appare la macchina da cucire» (Marx 1867, cap. 13 §6, t. 2, p. 153).

Succede così che, mentre il capitale variabile diminuisce relativamente al capitale costante, mentre sempre più lavoratori sono sostituiti da macchine, diminuisce anche il rapporto tra la produzione di beni necessari, di beni destinati alla sussistenza, e la produzione totale. La produzione totale, d’altra parte, aumenta enormemente in termini assoluti, e aumenta pertanto anche il plusvalore totale.

Il primo risultato delle macchine è di ingrandire il plusvalore e insieme la massa di prodotti nella quale esso si presenta, e dunque di ingrandire, assieme alla sostanza di cui si nutrono la classe dei capitalisti e le sue appendici, questi stessi strati della società. La crescente loro ricchezza e la diminuzione relativamente costante del numero di operai richiesti per la produzione dei mezzi di sussistenza di prima necessità generano un nuovo bisogno di lusso e insieme nuovi mezzi per soddisfarlo […] cresce la produzione di lusso (Marx 1867, cap. 13 §6, t. 2, p. 153, corsivi miei).

Prendiamo nota: le diffusione delle macchine ingrandisce la classe dei capitalisti e le sue appendici, e aumenta la loro ricchezza.

Non stupisce allora che aumenti anche la massa di «domestici, serve, lacché, ecc.», collettivamente denominati «classe dei servitori». Marx riporta i dati del censimento del 1861, secondo cui la popolazione complessiva di Inghilterra e Galles ammontava a poco più di 20 milioni di persone. Dedotti i troppo vecchi e i troppo giovani, i percettori di interessi e rendite, vagabondi, delinquenti ecc., dedotti anche i «“ceti ideologici” come governo, preti, giuristi, militari, ecc.», rimanevano circa 8 milioni di attivi, «inclusi tutti i capitalisti che in un modo o nell’altro hanno una funzione nella produzione, nel commercio, nella finanza, ecc.». La Tabella 1.1 mostra la consistenza della classe dei servitori rispetto agli occupati nell’agricoltura, nelle miniere e in alcuni settori industriali (Marx 1867, cap. 13 §6, t. 2, pp. 154-155).

Tabella 1.1: Occupazione in alcune attività economiche secondo il censimento del 1861 in Inghilterra e Galles (NB: Il totale degli attivi ammontava a circa 8 milioni).
Attività economica Occupazione
Agricoltura (inclusi pastori e servi) 1 098 261
Fabbriche di cotone, lana, lino, canapa, seta e iuta, calzetteria, merletteria meccanica 642 607
Miniere di carbone e di metallo 565 835
Officine metallurgiche e manufatture di metallo 396 998
Classe dei servitori (nelle case private) 1 208 648

Il commento di Marx:

Se sommiamo coloro che sono occupati in tutte le fabbriche tessili col personale delle miniere di carbone e di metallo, abbiamo 1 208 442; se li sommiamo col personale di tutte le officine e le manifatture metallurgiche, la somma è di 1 039 605; tutte due le volte la somma è minore del numero degli schiavi domestici moderni. Che edificante risultato dello sfruttamento capitalistico delle macchine!

Aggiunge poi in nota che il numero dei servitori maschi è quasi raddoppiato dal 1861 al 1870, passando da 137 447 a 267 671, e che il numero dei guardiacaccia è aumentato da 2 694 a 4 921 nel periodo 1847–1869.

Si potrebbe sintetizzare il tutto dicendo che, secondo Marx, il capitalismo genera una ricchezza crescente a scapito solo di una classe operaia che si riduce sempre più, assicurando comunque un buon tenore di vita a strati sempre più ampi della popolazione. Può sembrare strano, e per mettere meglio a fuoco sarà utile vedere da vicino in cosa consistono le «appendici» della classe dei capitalisti.

1.3 Le appendici del capitale e i frammenti del plusvalore

Abbiamo iniziato questo capitolo rilevando che Marx, nella settima sezione del primo libro del Capitale, astrae dai «frammenti» del plusvalore, che «toccano a differenti categorie di persone», e ne rimanda la trattazione al terzo libro. Prima di vedere in cosa consistono tali frammenti, può essere utile accennare al tema della trasformazione del plusvalore in profitto (chi già conosca l’argomento può tranquillamente saltare il prossimo paragrafo).

1.3.1 Dal plusvalore al profitto

Il saggio del plusvalore è definito come rapporto \(pv/v\) tra il plusvalore \(pv\) e il capitale variabile \(v\). Il saggio del profitto è definito invece come rapporto \(pv/(c+v)\) tra il plusvalore \(pv\) e tutto il capitale anticipato, costante e variabile. Risulta allora evidente che, a parità di saggio del plusvalore, il saggio del profitto può essere diverso tra settori che differiscono nel rapporto tra \(c\) e \(v\), e che questo potrebbe spingere i capitalisti a investire tutti nel settore più redditizio. In realtà ciò non avviene perché i prezzi sono diversi dai valori. Marx (1894, cap. 9, t. 1, pp. 200-202) illustra tale aspetto con alcune tabelle.

Capitali Saggio del plusvalore Plusvalore Valore del prodotto Saggio del profitto
I. 80c+20v 100% 20 120 20%
II. 70c+30v 100% 30 130 30%
III. 60c+40v 100% 40 140 40%
IV. 85c+15v 100% 15 115 15%
V. 95c+5v 100% 5 105 5%

Il capitale costante indicato va inteso come capitale investito, tuttavia, considerando cicli di produzione annuali, non tutto il capitale costante viene consumato nel prodotto di un anno. I prezzi di costo sono quindi pari alla somma del capitale costante consumato e del capitale variabile, i valori delle merci sono pari ai prezzi di costo più i plusvalori:

Capitali Saggio del plusvalore Plusvalore Saggio del profitto Consumo di \(c\) Valore delle merci Prezzo di costo
I. 80c+20v 100% 20 20% 50 90 70
II. 70c+30v 100% 30 30% 51 111 81
III. 60c+40v 100% 40 40% 51 131 91
IV. 85c+15v 100% 15 15% 40 70 55
V. 95c+5v 100% 5 5% 10 20 15

I saggi del profitto variano dal 5% al 40% ma, se fossero davvero tali, tutti i capitalisti investirebbero nel terzo settore, quello col saggio del profitto più elevato, creando da una parte un eccesso di offerta che deprimerebbe il prezzo, dall’altra una carrenza delle merci degli altri settori che ne aumenterebbe il prezzo. Succede così che i prezzi delle merci alla produzione, detti anche prezzi di produzione, differiscano dai loro valori quanto basta perché in tutti i settori si abbia lo stesso saggio del profitto, pari al rapporto tra la somma dei plusvalori, 110, e la somma dei capitali, 500:

Capitali Plusvalore Valore delle merci Prezzo di costo Prezzo delle merci Saggio del profitto Differenza tra prezzo e valore
I. 80c+20v 20 90 70 92 22% +2
II. 70c+30v 30 111 81 103 22% -8
III. 60c+40v 40 131 91 113 22% -18
IV. 85c+15v 15 70 55 77 22% +7
V. 95c+5v 5 20 15 37 22% +17

La somma algebrica delle differenze è zero, ovvero la somma dei valori delle merci è uguale alla somma dei loro prezzi. La somma dei profitti (delle differenze tra prezzi delle merci e prezzi di costo) è uguale alla somma dei plusvalori.

La trasformazione dei valori in prezzi e del plusvalore in profitto può sembrare semplice, ma in realtà nasconde numerose insidie. Molti hanno criticato l’esposizione di Marx (qui sintetizzata al massimo) ravvisando errori e incongruenze, altri hanno proposto interpretazioni che potrebbero forse salvarne la validità.3 Non mi soffermo oltre sull’argomento per un motivo molto semplice: se avesse ragione Marx, rimarrebbe comunque l’errore che intendo evidenziare; se avessero ragione i suoi critici, tale errore non verrebbe spiegato in alcun modo dalle inadeguatezze della trasformazione.

Mi sembra molto più interessante sottolineare che, a differenza di quello che si assume per semplicità nella settima sezione del primo libro del Capitale, il prezzo di produzione non é ciò che il capitalista ricava dalla vendita del suo prodotto, ovvero che il capitalista industriale non è affatto l’unico beneficiario del plusvalore.

1.3.2 Il capitale commerciale

Non esiste solo la produzione di merci. Vi sono capitali non impegnati nella produzione che, pur non creando valore, fruttano un profitto. Un profitto che ovviamente non può che derivare da plusvalore prodotto altrove, non può che essere una ripartizione (un «frammento») del plusvalore complessivo.

È strettamente connessa all’argomento la distizione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tipica dell’economia politica classica. Secondo Smith (1776, L. 2, cap. III, p. 325), ad esempio, è produttivo il lavoro che «si fissa e si realizza in alcuni particolari oggetti o merci destinate alla vendita». Marx adotta una definizione diversa, secondo cui «è produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista», ad esempio «un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola» (Marx 1867, cap. 14, t. 2, p. 222). Potrebbe allora sembrare che sia produttiva qualsiasi attività imprenditoriale, ma non è così. Per Marx sono produttivi la conservazione di scorte e il trasporto delle merci (Marx 1885, cap. 6 §§II-III, t. 1, pp. 143-158), ma non il commercio; in altri termini, il capitale commerciale non genera né valore né plusvalore. Ciò nonostante, il capitale commerciale partecipa alla ripartizione del plusvalore prodotto dal capitale variabile industriale e deve vedersi riconosciuto lo stesso saggo di profitto, altrimenti nessun capitalista investirebbe nel commercio (Marx 1894, cap. 17, t. 1, pp. 341-342).

Supponendo un prezzo di produzione pari a 1080, supponendo inoltre per semplicità che tale importo sia la somma di 720 per il capitale costante e di 180 sia per il capitale variabile che per il plusvalore, \[720+180+180=1080\] il saggio del profitto ammonterebbe, in prima approssimazione, a \(180/(720+180)=180/900=20\%\). Tuttavia, se esiste un capitale commerciale pari a 100, il saggio del profitto diventa il rapporto tra il plusvalore di 180 e un capitale complessivo pari a 900 di capitale produttivo più 100 di capitale improduttivo: \[180/(900+100)=180/1000=18\%\] È questo l’effettivo saggio generale del profitto, cui si giunge in quanto il capitale industriale vende il prodotto al capitale commerciale a un prezzo pari a 1062, inferiore al prezzo di produzione: \[720+180+162=1062\qquad\qquad 162/900=18\%\] mentre per il capitale commerciale si ha \[(1080-1062)/100=18/100=18\%\] In altri termini, perché esista un capitale commerciale (quindi un commercio), il capitale industriale deve cedere un «frammento» del plusvalore creato dal processo produttivo a «un capitale che partecipa al profitto senza partecipare alla sua produzione» (Marx 1894, cap. 17, t. 1 p. 345).

L’esistenza di un capitale improduttivo, che non produce plusvalore ma lucra un profitto, pone un problema che Marx affronta con qualche difficoltà: che dire dei lavoratori salariati commerciali? Non producono valore per definizione, quindi non riproducono il valore del salario né producono un plusvalore, il loro salario non è capitale variabile. Ma allora cosa è? Il capitolo 17 del terzo libro è chiaramente in bozza (vi compaiono ripetutamente annotazioni del tipo «bisognerà chiarire questo aspetto») e non mi pare contenga una risposta definitiva. Potrebbe forse aver ragione Garbero (1985), secondo cui Marx, per risolvere la difficoltà, assimila di fatto il salario dei lavoratori del commercio al capitale costante.

D’altra parte, pur ammettendo l’esistenza di un capitale commerciale originario di altra natura, a regime il capitale commerciale non può che essere alimentato dall’accumulazione di plusvalore e, pertanto, anche i salari dei lavoratori del commercio sono «frammenti» di plusvalore prodotto altrove.4

1.3.3 Il commercio del denaro

C’è un particolare tipo di commercio a cui Marx dedica un intero breve capitolo.

[I]l capitalista si trova nella situazione di dover continuamente versare del denaro ad un gran numero di persone e di dover al tempo stesso incassare del denaro in pagamento da molte persone. Questa semplice operazione tecnica di versare e incassare denaro costituisce un lavoro speciale che […] richiede la tenuta di conti che rappresentano gli atti della compensazione. Tale lavoro rappresenta un costo di circolazione, ma non crea del valore; esso viene ridotto per il fatto che una categoria speciale di agenti o di capitalisti se ne incarica per tutta la classe capitalistica (Marx 1894, cap. 19, t. 1 p. 380).

Si tratta di quello che Marx chiama «commercio del denaro» e che comprende il commercio dei lingotti e l’attività di cambio. Potremmo dire che si tratta dell’attività bancaria non creditizia, che come il commercio non crea valore e, pertanto, capitalisti e lavoratori in essa impegnati ricevono «frammenti» di plusvalore non prodotto come i loro colleghi commerciali.

1.3.4 L’interesse

I capitalisti industriali prendono spesso in prestito almeno parte del denaro che investono nella produzione, per poi restituirlo maggiorato di un interesse. L’interesse, per Marx, non è altro che la parte del profitto – quindi del plusvalore – che spetta a chi ha prestato denaro al capitalista industriale.

Si supponga che il saggio medio del profitto annuale sia del 20% […] Un uomo quindi che abbia a disposizione 100 Lst. ha a disposizione il potere di fare di 100 Lst. 120 Lst., ossia di produrre un profitto di 20 Lst. […] Se quest’uomo trasferisce per un anno queste 100 Lst. a un altro, che le impiega effettivamente come capitale, gli trasferisce il potere di produrre 20 Lst. di profitto […] Se quest’uomo alla fine dell’anno paga, al proprietario delle 100 Lst., ad esempio, 5 Lst., ossia una parte del profitto prodotto, egli paga con ciò il valore d’uso delle 100 Lst. […] La parte del profitto che egli paga si chiama interesse (Marx 1894, cap. 21, t. 2 p. 8).

I soggetti che prestano denaro vengono detti capitalisti monetari e costituiscono per Marx una vera e propria classe tutt’altro che secondaria:

che il capitalista industriale lavori con il proprio capitale o con capitale preso a prestito, non muta per nulla il fatto che la classe dei capitalisti monetari gli sta di fronte come una classe particolare di capitalisti, il capitale monetario come una specie autonoma del capitale (Marx 1894, cap. 23, t. 2 p. 51).

L’accumulazione del patrimonio di questa classe può svilupparsi di per se stessa in una direzione molto diversa da quella dell’accumulazione reale, dimostrando però in ogni caso che questa classe intasca una buona parte dell’accumulazione reale (Marx 1894, cap. 30, t. 2 p. 169).

La contrapposizione raggiunge il suo culmine con lo sviluppo delle società per azioni, in cui i proprietari del capitale sono i capitalisti monetari, mentre il capitalista industriale si trasforma «in un semplice dirigente, amministratore di capitale altrui». Si giunge fino alla costituzione di una «nuova aristocrazia finanziaria» (Marx 1894, cap. 27, t. 2 pp. 122-125).

I capitalisti monetari non prestano direttamente ai capitalisti industriali, ma si avvalgono di bancheri che prendono a prestito dagli uni, danno in prestito agli altri, e guadagnano prendendo a prestito a un tasso meno elevato di quello a cui danno in prestito (Marx 1894, cap. 25, t. 2 p. 82).

È evidente che l’interesse, come definito da Marx, è un cospicuo «frammento» del plusvalore. Per il resto, Marx non si occupa dei lavoratori che operano al servizio dei capitalisti monetari e dei banchieri, ma è evidente che si tratta di lavoratori che non producono plusvalore e i cui redditi, pertanto, sono ancora «frammenti» di plusvalore prodotto altrove.

1.3.5 Le rendite

Il modo di produzione capitalistico si estende anche all’agricoltura e «gli agricoltori effettivi sono dei salariati, occupati da un capitalista, l’affittuario». Il proprietario della terra concede i terreni in affitto al capitalista, che gli paga ogni anno una somma di denaro detta «rendita fondiaria» (Marx 1894, cap. 37, t. 3 p. 12).

La rendita trae origine dalla diversa produttività dei capitali investiti in diversi terreni. Dove la produttività è maggiore si genera un plusprofitto, che viene trattenuto dal proprietario fondiario e costituisce la sua rendita. Ad esempio (Marx 1894, cap. 39, t. 3 p. 50),

Terreno Prodotto Capitale Profitto + plusprofitto Rendita Profitto
A 60 50 10 0 10
B 120 50 70 60 10
C 180 50 130 120 10
D 240 50 190 180 10

Il terreno A è il peggiore e permette di ottenere un prodotto di 60 investendo un capitale di 50. Sugli altri terreni si ottengono prodotti via via maggiori con lo stesso investimento, ma, per assicurare lo stesso profitto su tutti i terreni, i plusprofitti realizzati sui terreni B, C e D diventano rendite per i loro proprietari. Fa eccezione il terreno A su cui non c’è plusprofitto e, pertanto, non c’è rendita.

Vi sono diverse varianti di questa rendita, detta rendita differenziale, e vi sono anche casi in cui si ha una rendita assoluta sul terreno A (Marx 1894, capp. 38–45), ma ora importa solo rilevare che il proprietario del terreno si impadronisce di quote tutt’altro che trascurabili dei profitti. Inoltre, essendo i profitti niente altro che plusvalore redistribuito tra i capitalisti, quelle quote sono cospicui «frammenti» di plusvalore.

Tali frammenti diventano sempre più grandi e si ha un progressivo arricchimento dei proprietari fondiari. Durante il periodo di affitto, infatti, il capitalista effettua spesso investimenti a carattere permanente che, quando l’affitto giunge a scadenza, passano di diritto al proprietario fondiario. Aumenta così il valore della terra e il successivo contratto d’affitto ne tiene conto. Ciò si manifesta soprattutto nella rendita dei proprietari di terreni edificabili: alla scadenza dei contratti d’affitto si censiscono gli edifici costruiti sui terreni, che vanno ad aumentare gli averi dei proprietari dei terreni (Marx 1894, cap. 37, t. 3 pp. 13-15).

Altre forme di rendita, come la rendita mineraria, sono in tutto e per tutto equivalenti alla rendita agricola (Marx 1894, cap. 46).

Chiaramente sono «frammenti» di plusvalore anche i redditi che i proprietari di terreni agricoli, di miniere o di terreni edificabili riconoscono alle persone al loro servizio, siano essi domestici, guardiacaccia (Marx 1867, cap. 13 §6, t. 2 p. 155) o ispettori incaricati di censire gli investimenti effettuati dagli affittuari (Marx 1894, cap. 37, t. 3. p. 15).

1.3.6 Imposte e tasse

Nel Capitale Marx si occupa solo marginalmente di imposte e tasse, ma è evidente sia che si tratta ancora di importi che derivano in ultima analisi dal plusvalore, sia che vengono usati anche per assicurare un reddito ai dipendenti pubblici.

1.4 La parte e il tutto

Possiamo ora tornare al primo libro del Capitale, in particolare al settimo paragrafo del ventiquattresimo capitolo, in cui Marx delinea «la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica».

Il capitalismo si è affermato inizialmente attraverso «l’espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale» (Marx 1867, cap 24 §7, t. 3, p. 221): contadini che potessero mantenersi coltivando la loro terra, ad esempio, non si offrirebbero come salariati e il capitalista si troverebbe senza mano d’opera.5

Con la diffusione delle macchine si è poi avuta una concentrazione di mezzi di produzione nelle mani di capitalisti individuali, accompagnata da una socializzazione del lavoro per il corrispondente comando su un esercito più o meno grande di operai.

Dalla continua concorrenza tra i capitalisti emergono vincitori e vinti, capitalisti che espropriano altri capitalisti danno luogo a una progressiva centralizzazione dei capitali, intesa come concentrazione non di mezzi di produzione, ma di capitali già formati (Marx 1867, cap 23 §2, t. 3, pp. 74-75).

Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico […] La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati […] la produzione genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione (Marx 1867, cap. 24 § 7, t. 3, p. 223).

Un numero sempre minore di capitalisti si contrappone a una massa crescente di proletari, in cui confluiscono anche i piccoli produttori indipendenti e i molti capitalisti colpiti a morte dai pochi magnati. L’espropriazione della massa della popolazione aveva richiesto secoli, ma l’«espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo» può essere incomparabilmente più breve (Marx 1867, cap. 24 § 7, t. 3, pp. 223-224).

Si tratta di uno scenario ben diverso da quello delineato nel capitolo 13. Lì si avevano una ricchezza diffusa sempre maggiore, una crescente produzione di beni di lusso, la continua contrazione della classe operaia rispetto alle appendici del capitale e alla classe dei servitori. Nel capitolo 24 si ha una massa di proletari sempre più ampia a fronte di pochi magnati.

L’apparente contraddizione in realtà non esiste, ma nasconde comunque un serio problema. Non c’è contraddizione perché nel capitolo 13, che appartiene alla quarta sezione, Marx considera tutta la società e tutti gli strati sociali che si ripartiscono il plusvalore, anche se rimanda l’analisi di dettaglio al terzo libro. Nella settima sezione, invece, afferma chiaramente di tenere conto solo dei soggetti coinvolti nella produzione, di astrarre dagli altri, di considerare fittiziamente i capitalisti come proprietari di tutto il plusvalore.

Il problema è che Marx mantiene quel livello di astrazione anche nelle ultime pagine del capitolo 24, quando affronta l’argomento della tendenza storica dell’accumulazione capitalistica, ma va ben oltre l’argomento e si spinge fino a tracciare una presunta tendenza storica della società tutta. Giunge così a delineare uno scenario tendenzialmente bipolare, una società che sempre più si riduce a due sole classi, che sarebbe in sé semplicemente impossibile: chi consumerebbe l’enorme quantità di beni prodotti?

Secondo Malthus (1832, lib. 2, cap. 1, §9, pp. 398-400), in un paese con grande capacità produttiva è necessaria la presenza di consumatori non impegnati nei processi produttivi. I salariati possono spendere solo quanto necessario alla loro sopravvivenza, i capitalisti consumano soprattutto quanto può essere aggiunto al loro capitale (in termini marxiani, il plusvalore di cui si appropriano viene accumulato nella forma di nuovo capitale). È pertanto necessario che qualcun altro consumi la grande quantità di beni prodotti e i proprietari terrieri sono i migliori candidati, ma non sarebbero sufficienti se non fossero assistiti dai numerosi servitori che mantengono.

Alla luce di queste riflessioni appare ancora più chiaro che lo scenario realistico è quello del capitolo 13 del primo libro del Capitale, quello in cui con la grande industria e con una sempre maggiore produttività del lavoro aumentano sia la ricchezza generale che la produzione di beni di lusso. Lo scenario bipolare del capitolo 24 ha senso solo come astrazione utile per analizzare il mondo della produzione, per mostrare come si arrivi a una progressiva centralizzazione dei capitali. Non si tratta di un’analisi sterile, ma quel che accade tra pochi magnati e i proletari da loro comandati non può spiegare l’evoluzione di una società sempre più popolata dalle «appendici» del capitale.

Quando non si limita più l’analisi al processo di produzione, quell’astrazione diventa un vero e proprio errore, un errore fatale. Lo scenario semplificato rende apparentemente plausibile la facile e rapida espropriazione di pochi usurpatori «da parte della massa del popolo». Non appena, però, si guardi alla reale massa del popolo in tutte le sue articolazioni, si scopre che già nel 1861 la classe operaia ne era solo una parte relativamente modesta (Tabella 1.1). Cosa poteva allora garantire «con l’ineluttabilità di un processo naturale» il superamento del capitalismo? Assolutamente nulla. E infatti quel superamento non c’è stato.

1.5 Economia e politica

L’idea che la società vada sempre più articolandosi in due sole classi compare anche in alcuni scritti politici di Marx. In particolare, nel Manifesto del Partito Comunista si legge che «La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato» (Marx e Engels 1848, p. 101). I motivi sono quelli che si ritrovano poi nel Capitale e che abbiamo già visto:

Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l’esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione (Marx e Engels 1848, p. 110).

Quasi trent’anni dopo la stessa tesi viene riproposta nella Critica al programma di Gotha:

Nel Manifesto comunista si dice: «Di tutte le classi, che stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria […] i ceti medi […] diventano rivoluzionari in vista del loro imminente passaggio al proletariato» (Marx 1875, p. 43, corsivo mio).

Potremmo dire che Marx dimentica «il continuo accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo tra operai da una parte, capitalista e proprietario fondiario dall’altra, e che direttamente si nutrono in sempre maggiore ampiezza e in gran parte del reddito, che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice e aumentano la sicurezza e la potenza sociale dei diecimila sovrastanti». Si dà il caso, però, che questa sia esattamente la critica che, nelle Teorie sul plusvalore, Marx (1910, p. 628) muove al capitolo sulle macchine di Ricardo (1821)!

Negli anni ’70 fece scalpore il Saggio sulle classi sociali di Sylos Labini, che sottolineava tra l’altro la mancata previsione da parte di Marx sia dell’apparire di un artigianato di tipo nuovo, costituito da unità satelliti delle grandi imprese, sia dell’espansione della piccola borghesia impiegatizia e commerciale. Sylos Labini (1988, pt. I, cap. 5) ricorda quel passo delle Teorie sul plusvalore, ma ritiene che si tratti di un’osservazione isolata. Abbiamo visto che così non è, perché il passo è chiaramente coerente col capitolo 13 del primo libro del Capitale e con il terzo libro. Possiamo aggiungere che tutto il capitolo su Ricardo e le macchine delle Teorie sul plusvalore è coerente nel suo impianto con quanto si legge nel Capitale.

Anche nelle Teorie sul plusvalore, infatti, Marx distingue tra ciò che succede nella fabbrica e ciò che succede nella società. L’introduzione delle macchine comporta l’allontanamento dal lavoro degli operai che esse sostituiscono, senza alcuna garanzia di nuova occupazione, mentre il «pubblico» trae giovamento «dalla diminuzione di prezzo della merce». Se «una parte degli operai muore di fame, un’altra parte può nutrirsi meglio, vestirsi meglio, così come i lavoratori improduttivi e i gradi intermedi tra operaio e capitalista». Non si tratta di classi destinate a sparire, al contrario «Le classi e le sottoclassi che non vivono direttamente del lavoro si accrescono, vivono meglio di prima, e altrettanto si accresce il numero dei lavoratori improduttivi» (Marx 1910, pp. 611-615). Tali sono, per Marx, gli appartenenti a quella piccola borghesia impiegatizia e commerciale di cui non avrebbe previsto l’espansione!

Sylos Labini osserva che in opere di carattere storico, come Le lotte di classe in Francia e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx appare ben consapevole dell’articolazione della società in più classi e sottoclassi, e abbiamo visto quanto spazio dedichi alla loro analisi nel terzo libro del Capitale. Potremmo dire che il Marx economista, che lo studioso della dinamica economica della società del suo tempo non cede a eccessive semplificazioni. Il Marx politico, quello del Manifesto, del capitolo 24 del primo libro del Capitale, della Critica al programma di Gotha si fa invece prendere la mano, vede solo il conflitto tra borghesia e proletariato, cerca di individuare un fondamento “scientifico” dell’azione politica che auspica e lo desidera a tal punto che finisce per non vedere una realtà che altrove ha lucidamente descritto.

È difficile credere che un pensatore come Marx abbia commesso un tale errore, lo stesso errore che rimprovera a Ricardo. Forse c’è una sola spiegazione. Marx non accenna nemmeno a un’analisi quantitativa della dinamica delle classi sociali, non cerca di calcolare quanta parte del plusvalore complessivo si trasformi in redditi diversi dal profitto, non fa alcun tentativo di valutare se la crescente proletarizzazione dei piccoli produttori indipendenti (cap. 24 del primo libro del Capitale) sia quantitativamente più o meno rilevante dell’espansione del lavoro che definisce improduttivo (cap. 13). È tanto lontano da una simile analisi, che nel terzo libro del Capitale accenna con qualche esitazione ai lavoratori del commercio, ma ignora del tutto i lavoratori di altri settori, come il credito, e i «ceti ideologici». E allora diventa facile per la passione politica colmare a proprio beneficio le lacune dell’analisi economica e sociale.

1.6 Le conseguenze

Marx, astraendo da tutto il resto, considera la dinamica di due sole classi — i capitalisti industriali (compresi gli affittuari agricoli) e i loro salariati — e prevede ragionevolmente che continui la progressiva concentrazione e centralizzazione dei capitali, in forza della quale un gruppo sempre più ristretto di grandi capitalisti fronteggia masse di operai che da un lato vivono nella miseria, dall’altro sono uniti e organizzati in quanto sono tali nella produzione. Giunge così a ritenere inevitabile l’eliminazione di pochi sfruttatori da parte di quelle masse di operai, che diventano improvvisamente «massa del popolo». Ritiene l’esito ragionevole, in quanto tanti piccoli e medi produttori autonomi sono destinati ad essere fagocitati dal capitale sempre più centralizzato e a ingrossare, pertanto, «la massa della miseria». L’ineluttabilità del processo gli appare tale che si spinge a ritenere possibile una rivoluzione pacifica in Inghilterra, il paese capitalistico più avanzato (v. Engels 1886).

In tutto ciò Marx dimentica di aver considerato fittiziamente il capitalista industriale proprietario di tutto il plusvalore, mentre in realtà sue quote niente affatto secondarie affluiscono alla classe dei capitalisti monetari sotto forma di interesse, alla classe dei proprietari fondiari sotto forma di rendita, ai commercianti sotto forma di guadagno commerciale, ai loro dipendenti e servitori sotto forma di redditi affini al salario ma in realtà «frammenti» di plusvalore. Nonostante vi siano solo accenni sporadici nel Capitale al riguardo, parte del plusvalore viene prelevata dallo Stato per imposte e tasse e ne derivano redditi per i «ceti ideologici» (dipendenti del governo, preti, giuristi, militari, ecc.).

Dimentica, inoltre, che la progressiva concentrazione e centralizzazione del capitale avviene grazie all’impiego di macchine che aumentano sempre più la produttività del lavoro, fino a rendere sempre minore il capitale variabile rispetto al capitale costante, ma anche fino ad aumentare sempre più il volume della produzione e la massa del plusvalore. Aumentano in particolare la produzione di beni di lusso e, contestualmente, le classi e i ceti che li consumano. Non ci sono solo la miseria dei salariati e il progressivo impoverimento dei produttori piccoli e medi, la «massa della miseria» non coincide con la «massa del popolo».

E così non solo non c’è stata alcuna rivoluzione in Inghilterra, ma l’errore di Marx, il suo aver esteso all’intera società la dinamica di sole due classi, ha reso molto difficile orientare l’azione politica rispetto ai ceti e alle classi dimenticate.

La storia dell’Unione Sovietica offre un esempio drammatico di tali difficoltà in una situazione in cui, per la relativa arretratezza dell’impero russo, la classe operaia era nettamente minoritaria.

Trockij diceva che nel 1905 la rivoluzione si era infranta «contro le baionette dell’esercito contadino». Appariva pertanto urgente la necessità di un’alleanza tra operai e contadini, ma non ne erano affatto chiari i termini. Nel Congresso di Stoccolma del 1906, ad esempio, Plechanov proponeva di redistribuire le terre ai contadini, mentre Lenin voleva la nazionalizzazione della terra (v. Sofri 1969, pp. 95-96).

Paradossalmente nel 1917, il giorno dopo la presa del Palazzo d’Inverno e l’arresto del governo provvisorio, lo stesso Lenin emanò un decreto che disponeva invece la confisca delle terre dei proprietari terrieri e la loro distribuzione ai contadini. Non si trattava però di una scelta definitiva. Pochi mesi dopo Lenin lanciò un appello a una «guerra di tre mesi per il grano». I soviet già eletti vennero sciolti e sostituiti da commissioni straordinarie e da comitati di contadini poveri che, ricorrendo a metodi spietati, privavano le campagne sia dei loro raccolti che di uomini destinati alla coscrizione obbligatoria. I beneficiari del decreto del 1917 divennero nel 1918 gli odiati kulak. In Ucraina il crollo degli imperi centrali comportò la fine del regime sostenuto dai tedeschi, e i bolscevichi riuscirono a insediarvi nel 1919 un governo comunista promettendo ancora una volta ai contadini la spartizione della terra. Quel governo però, spinto dalla necessità di usare le campagne ucraine per rimediare ai problemi alimentari russi, lanciò un’offensiva a testa bassa contro i contadini per requisire i raccolti e promuovere la collettivizzazione (Graziosi 2007, cap. 2).

La situazione delle campagne peggiorò non solo per le violente requisizioni, ma anche per la severa siccità dell’estate del 1920, cui seguì un’esplosione di violente rivolte contadine e di brutali repressioni. All’inizio del 1921 si leggeva in alcuni rapporti che nei villaggi vi era stata una rivoluzione egualitaria che li aveva trasformati in uno «stato autosufficiente di tipo feudale», regno di una «piccola economia contadina di tipo naturale […] economicamente ostile al proletariato» (cioè ai bolscevichi). Nel X congresso del Partito Comunista Russo, Lenin e altri descrissero i contadini — già più volte blanditi e ingannati — come controrivoluzionari piccolo-borghesi, come un nemico di classe. Ciò nonostante, l’apparato repressivo era allora troppo debole per uno scontro frontale con ventidue milioni di famiglie contadine proprietarie e Lenin propose, con la NEP, una vera e propria ritirata strategica; in particolare, le requisizioni furono sostituite da una tassa fissa che incoraggiava i kulak a produrre di più (Graziosi 2007, cap. 3).

Inutile ricordare che qualche anno dopo, grazie a un apparato statale più forte, Stalin poté regolare i conti imponendo la collettivizzazione forzata. Vicende così dolorose e così contraddittorie hanno molteplici cause, non ultimo il clima di guerra sia all’esterno che all’interno, ma appare corretta l’osservazione di Graziosi (2007, p. 26) circa lo slogan «la terra a chi lavora»:

Questo slogan, poi fatto proprio dai bolscevichi per una breve stagione nel 1917-18, e dai comunisti di tutto il mondo per molti decenni ovunque è esistito il latifondo, nascondeva in realtà al suo interno principi opposti a quelli propugnati da questi partiti e più in generale al collettivismo. Come quegli stessi bolscevichi furono costretti a capire nel 1919-20, e poi di nuovo durante la lotta per la collettivizzazione, esso era sì alla base dell’odio per i signori che disponevano dei frutti dei campi senza faticarvi, ma esprimeva anche e soprattutto la rivendicazione dell’uso e della proprietà contadina, individuale o comunitaria, della terra, fondata sul diritto che proveniva dall’averci lavorato.

Altrove, Graziosi (2007, p. 129) nota che «le campagne volevano la terra e un loro socialismo, ma non il socialismo dei bolscevichi».

In altri termini, i bolscevichi non avevano idea di cosa fare dei contadini. Più in generale, non avevano idea di cosa fare di soggetti diversi da una classe operaia disciplinata, unita e organizzata nella grande industria.6 Sono quei soggetti cui Marx accenna nel capitolo 13 del primo libro del Capitale, a cui dedica ampio spazio nel terzo libro, ma che dimentica in testi cruciali dal punto di vista politico quali il Manifesto e la Critica al programma di Gotha.

In tale voragine teorica scompaiono tutti i lavoratori “improduttivi” (credito, commercio ecc.) e diventa impossibile vedere che, suddividendosi il plusvalore in un gran numero di «frammenti», non è affatto scontato che i salariati dell’industria siano la classe sfruttata per definizione. Sarebbe infatti possibile aumentare il salario oltre il livello di sussistenza e lasciare comunque invariato il profitto, diminuendo i «frammenti» di plusvalore che vanno ad altre categorie. Nell’Europa di oggi, ad esempio, i lavoratori dei servizi non solo sono sempre più numerosi, ma sono a volte più sfruttati di quelli dell’industria perché più deboli, perché non sono «disciplinati, uniti e organizzati» sul luogo di lavoro.

Da quella voragine teorica emana poi una paradossale proposta politica ai piccoli produttori e commercianti indipendenti: dal momento che sei destinato a diventare sempre più povero e poi a sparire, non ti resta che allearti con la classe operaia. Non si vede per quale motivo non si possa proporre ad essi una prospettiva migliore dell’impoverimento, non si vede perché si debba proporre la sofferenza in questa vita in cambio di un paradiso prossimo venturo — né con quale successo si possa pensare di farlo.7

Ciò considerato, non appare affatto strano che il cosiddetto “socialismo reale” sia stato un fallimento, non solo perché è crollato ma anche e soprattutto perché assomigliava ben poco alla visione — ahimé utopistica — di Marx. Ma non appare strano nemmeno che nessun partito comunista sia mai riuscito a conquistare la maggioranza dei consensi in una democrazia occidentale. Una sinistra di ispirazione anche solo vagamente marxista non può che essere minoritaria.

1.7 Cosa resta?

Molti hanno scritto pagine e pagine su cosa può restare di Marx oggi, in particolare pochi anni fa nel bicentenario della sua nascita (v. ad es. Bellofiore e Fabiani 2019; Gatto 2020). Non intendo mettermi sullo stesso piano di tanti esperti e mi limito alle mie personali suggestioni.

Mi sembra indubbio che Marx ci abbia efficacemente esortato tutti a osservare la realtà sociale e politica tenendo in grande considerazione le vicende economiche e, soprattutto, i diversi interessi economici in gioco. Mi sembra anche che gli si possa riconoscere il merito di aver insistito sulla conseguente natura conflittuale dei rapporti tra diverse classi sociali, un fatto per lungo tempo ostinatamente negato. Il fervore ideologico si è ormai un po’ attenuato, come dimostra anche un noto lavoro di Acemoglu e Robinson (2006). Pilastro esplicito della loro ricerca è «l’importanza fondamentale del conflitto» (p. XII), la consapevolezza che «la politica è instrinsicamente conflittuale», in quanto le scelte politiche creano spesso un «conflitto distributivo» (p. 20). Acemoglu è tra gli economisti più citati al mondo, appartiene sicuramente al mainstream, come si usa dire, ma non si lascia imbrigliare dall’individualismo metodologico dell’economia neoclassica. Riconosce infatti che «gruppi di individui possono agire collettivamente» e che ha senso discutere di conflitti tra gruppi che possono essere classi sociali nel senso di Marx, oppure gruppi urbani, etnici o religiosi, oppure i militari (pp. 20-21).

Vedremo nel prossimo capitolo come si sia cercato di negare l’evidenza.


  1. Per tutte le opere di Marx e di Smith, tomo e pagina si riferiscono alle traduzioni italiane indicate nella bibliografia.↩︎

  2. Compreso il lavoro necessario a produrre i mezzi di produzione impiegati nella produzione dei mezzi di sussistenza.↩︎

  3. Si potrebbe partire da Serafini (2012), uno dei contributi più recenti, per una rapida rassegna della discussione.↩︎

  4. Da notare che si tratta di un problema di teoria economica che ha immediati riflessi politici: rispetto al proletariato, il lavoratori del commercio sono alleati, in quanto salariati, oppure nemici di classe, in quanto si appropriano di plusvalore non prodotto?↩︎

  5. Sfioro qui i temi dell’accumulazione originaria e della transizione dal feudalesimo al capitalismo, di cui un tempo si discuteva lungamente (vedi ad es. Bolaffi 1973). Si tratta di temi sicuramente interessanti, ma marginali rispetto all’obiettivo del capitolo.↩︎

  6. Ad esempio, nel novembre del 1918 la nazionalizzazione e municipalizzazione del commercio comportò, nella sola Mosca, la chiusura di oltre 3400 negozi, mentre il settore del credito venne stravolto dai fallimentari tentativi di sostituire la moneta con “buoni lavoro” (Graziosi 2007, cap. 2).↩︎

  7. L’argomento è molto delicato e va rimandato a un prossimo capitolo, anche perché quell’impoverimento che in Marx è formulato come una sorta di legge economica va oggi letto, a mio parere, come preciso disegno di soggetti che non figuravano nello scenario vissuto da Marx.↩︎