2 Un’economia un po’ troppo politica
Un tempo gli economisti si schieravano apertamente: individuavano classi sociali, valutavano la coerenza tra gli interessi di ciascuna e quelli della società in generale, misuravano il contributo di ciascuna alla ricchezza della nazione, proponevano espressamente politiche fiscali e commerciali che favorissero una classe rispetto a un’altra. Era a tutti gli effetti una economia politica, political economy in inglese.
Verso la fine del XIX secolo iniziò a diffondersi il tentativo di una riflessione economica più neutrale, di una teoria economica pura, di una disciplina denominata economica per analogia con la fisica. In realtà il termine italiano non ha avuto fortuna, anche perché l’inglese è la lingua franca dell’economia e si può evitare di tradurre: se dico economics è chiaro cosa voglio dire.
Non mi pare comunque che il tentativo abbia avuto grande successo. Perfino George Stigler (2017, p. 8) — allievo di Frank Knight, grande amico di Milton Friedman, esponente di spicco della scuola di Chicago, premio Nobel nel 1982 — riconosce che «economics è dopo tutto economia politica e la politica sociale è, come è sempre stata, il suo problema centrale».
È inevitabile che si abbia allora una neutralità minore di quella desiderata (e dichiarata), ma a volte si esagera. La teoria economica tende infatti a trasformare palesi conflitti politici in astratte interazioni economiche in cui apparentemente tutti conseguono i maggiori benefici possibili. Ne vedremo due esempi: la teoria ricardiana del vantaggio comparato, tipico primo capitolo dei manuali di economia internazionale, e la teoria secondo cui i fattori della produzione vengono remunerati equamente secondo il loro contributo al prodotto, pilastro fondamentale dell’economia neoclassica. Vedremo anche che in entrambi i casi vi sono state subito chiare confutazioni da parte di critici autorevoli, che però sono stati semplicemente ignorati.
I contesti politici in cui sono nate tali teorie sono peraltro profondamente cambiati, al punto che sembra lecito sperare in un minore fervore ideologico. E allora si può anche sperare di fondare la politica su visioni meno distorte della realtà.
2.1 Il trucchetto di Ricardo
All’inizio del XIX secolo il grano e il suo commercio sono stati oggetto di accesi dibattiti e di frequenti provvedimenti legislativi nel Regno Unito.1 Le leggi sul grano (Corn Laws) del 1804 avevano previsto un dazio all’importazione nel caso il prezzo interno fosse sceso sotto una data soglia,2 ma le guerre napoleoniche avevano provocato un aumento dei prezzi tale da lasciarle inapplicate. Dopo l’abbondante raccolto del 1813 e la resa di Napoleone nel 1814 i prezzi diminuirono e, tra la fine del 1814 e l’inizio del 1815, si discusse di nuovo animatamente del prezzo del grano e di possibili restrizioni all’importazione (Salvadori e Signorino 2013, p. 1).
2.1.1 L’amichevole polemica con Malthus
Inizialmente, nelle sue Osservazioni sugli effetti delle leggi sul grano, Thomas Robert Malthus aveva cercato di esaminare le due opzioni – importazione di grano libera oppure con restrizioni – restando imparziale, ma aveva comunque sottolineato i vantaggi del libero commercio purché praticato da tutti i paesi europei (Malthus 1814, pp. 16-17). Cambiò radicalmente idea pochi mesi dopo, per un buon motivo: la Francia aveva deciso di introdurre limitazioni all’esportazione di grano (Malthus 1815b, p. 12). Pubblicò allora un altro saggio, I motivi di un’opinione sulla politica di restrizione dell’importazione di grano straniero, in cui affermava che «nella situazione attuale dell’Europa e nelle circostanze in cui ci troviamo» era saggio aumentare la produzione interna e limitare le importazioni (Malthus 1815b, p. 47). La Francia non era un paese come un altro, ma era secondo lui il paese da cui si sarebbero importate le quantità maggiori di grano, sia per la vicinanza, sia per un prezzo pari a meno della metà di quello inglese (Malthus 1815b, pp. 11-12). Ridurre la produzione interna per sostituirla con le importazioni avrebbe comportato il serio rischio di dover affrontare non solo una carenza di grano, ma anche ampie fluttuazioni dei prezzi per l’abitudine dei paesi baltici – altro possibile fornitore estero – di aumentare le tasse sul grano esportato in proporzione alla domanda (Malthus 1815b, p. 27). In sintesi, Malthus temeva che la dipendenza dalle importazioni avrebbe comportato problemi di sicurezza nazionale.
«Il signor Malthus, in maniera molto esatta, definisce la rendita della terra…» Iniziava così il Saggio sull’influenza di un basso prezzo del grano sui profitti del capitale di David Ricardo, pubblicato anch’esso nel 1815. Ricardo e Malthus erano buoni amici e si stimavano molto, ma questo non impediva loro di manifestare i numerosi punti di disaccordo.
Ricardo partiva dalla teoria della rendita proposta quasi simultaneamente da Malthus (1815a), West (1815) e Torrens (1815), condivisa e riproposta da lui stesso. Nonostante alcune differenze tra gli autori, si può dire con qualche approssimazione che si trattava della teoria poi ripresa da Marx e sintetizzata nel capitolo precedente, §1.3.5. Aspetto centrale di quella teoria, secondo Ricardo (1815, pp. 332-341),3 era che un aumento della produzione, costringendo a sfruttare terre sempre meno fertili o più lontane dai luoghi di consumo, oppure ad aumentare il capitale impiegato sulla terra già sfruttata, avrebbe comportato una diminuzione dei profitti.
Semplificando l’esempio da lui proposto, si può costruire una tabella analoga a quella vista nel §1.3.5:
Terreno | Capitale | Prodotto | Profitto A-C |
Rendita A-C |
Profitto A-D |
Rendita A-D |
---|---|---|---|---|---|---|
A | 50 | 240 | 70 | 120 | 10 | 180 |
B | 50 | 180 | 70 | 60 | 10 | 120 |
C | 50 | 120 | 70 | 0 | 10 | 60 |
D | 50 | 60 | – | – | 10 | 0 |
Quando si coltivano solo i primi tre terreni, la misura del profitto è data da quello realizzato sul terreno C, il meno fertile, su cui non c’è rendita. I terreni A e B fruttano necessariamente lo stesso profitto, 70, ma il maggior prodotto lordo consente di pagare ai proprietari terrieri rendite pari, rispettivamente, a 120 e 60. Quando si deve estendere la produzione al terreno D, ancora meno fertile, il profitto scende a 10 mentre le rendite sui terreni A, B e C aumentano, rispettivamente, da 120, 60 e 0 a 180, 120 e 60.
A ciò si aggiunge che il minor rendimento della terra comporta un aumento del prezzo del grano e, con ciò, un aumento dei salari che a sua volta deprime i profitti.4
Aumentare la produzione interna di grano come auspicato da Malthus, quindi, avrebbe comportato una diminuzione dei profitti. Al contrario, «la scoperta di nuovi mercati, da cui il grano può essere importato a un prezzo più basso di quello a cui può essere coltivato all’interno» avrebbe permesso sia di evitare la coltivazioni di terre poco produttive, sia di diminuire i salari e con ciò di aumentare i profitti. Si doveva pertanto eliminare qualsiasi restrizione all’importazione di grano (Ricardo 1815, pp. 342-345).
Ricardo riconosceva che l’unica obiezione seria era proprio quella formulata da Malthus circa «il pericolo di dipendere dai paesi stranieri per una parte dei nostri viveri». Osservava tuttavia che, se l’Inghilterra fosse diventata un paese regolarmente importatore, «nei paesi cerealicoli verrebbe messa a coltura molta più terra in vista dell’esportazione». Conseguentemente, «l’enorme capitale che sarebbe investito nella terra non potrebbe essere ritirato all’improvviso e, nel caso lo fosse, ciò non avverrebbe senza enormi perdite». Se anche succedesse – e sarebbe uno scenario di guerra – «otterremmo considerevoli rifornimenti dai paesi con cui non fossimo in guerra» (Ricardo 1815, pp. 345-347).
L’Inghilterra sarebbe stata cioè un cliente troppo importante: altri paesi non avrebbero potuto né rinunciare a coltivare grandi quantità di grano per l’esportazione, né tornare poi indietro.
2.1.2 La teoria del vantaggio comparato
Il Saggio di Ricardo non risultò molto efficace, visto che poche settimane dopo venne approvata una legge che vietava l’importazione di grano se il prezzo interno non avesse superato una soglia piuttosto alta.5
L’amico James Mill convinse comunque Ricardo a sviluppare questo e altri argomenti in un testo organico. Vide così la luce nel 1817 l’opera Sui principi dell’economia politica e della tassazione, che ebbe un buon successo e venne presto riproposta in una seconda e in una terza edizione nel 1819 e nel 1821.6
Ho costantemente cercato di mostrare, in tutta quest’opera, che il saggio del profitto può essere aumentato solo da una diminuzione dei salari, e che non vi può essere diminuzione permanente dei salari se non in seguito a una diminuzione dei prezzi dei beni di prima necessità in cui i salari vengono spesi (Ricardo 1821, cap. VII, p. 91).
Come si vede, Ricardo continuava a riaffermare, sia pure nel contesto di un’argomentazione molto più articolata, la tesi del suo Saggio del 1815: conviene importare grano a basso prezzo per aumentare i profitti e sviluppare così il settore manifatturiero. Da notare che quel passo viene proprio dal capitolo sul commercio estero, e che è seguito da una interessante precisazione:
se le merci ottenute a prezzi più bassi […] sono le merci consumate esclusivamente dai ricchi, non si avrà nessuna modificazione nel saggio del profitto. Anche se vini, velluti, sete e altre merci costose dovessero diminuire del 50%, il saggio del salario non ne sarebbe minimamente influenzato , e quindi i profitti rimarrebbero inalterati (Ricardo 1821, cap. VII, pp. 91-92).
A differenza di quanto aveva fatto nel Saggio, tuttavia, ora intendeva dimostrare che il libero commercio estero non conveniva solo all’Inghilterra, ma al mondo intero!
In un sistema di perfetta libertà di commercio, ogni paese rivolge naturalmente il capitale e il lavoro agli impieghi che gli sono maggiormente vantaggiosi. Questo perseguimento del vantaggio individuale si accorda mirabilmente con il bene universale della società […] accrescendo la massa generale dei prodotti diffonde il benessere generale e lega con il vincolo comune dell’interesse e dello scambio reciproco la società universale delle nazioni di tutto il mondo civile (Ricardo 1821, cap. VII, p. 92).
L’Inghilterra doveva dunque importare liberamente grano dalla Francia? Non proprio.
È questo principio che fa sì che il vino venga prodotto in Francia e in Portogallo, che il grano venga coltivato in America e in Polonia, e che ferramenta e altre merci vengano manifatturate in Inghilterra (Ricardo 1821, cap. VII, pp. 92-93).
Quando discuteva con Malthus il grano veniva dalla Francia, ora dovrebbe venire dall’America e dalla Polonia, mentre Francia e Portogallo produrrebbero vino. Rimane la splendid isolation dell’Inghilterra, unica potenza industriale, ma perché quei cambiamenti? Lo vedremo tra poco.
Ricardo proseguiva osservando che, «se i profitti del capitale impiegato nello Yorkshire dovessero superare quelli del capitale impiegato a Londra, il capitale si sposterebbe rapidamente da Londra nello Yorkshire», ma non accade lo stesso nel commercio internazionale, perché capitali e popolazione non si spostano tra paesi con la stessa facilità con cui si spostano all’interno di uno stesso paese. Ne segue, tra l’altro, che differenze di produttività tra i paesi tendono a persistere.
Ciò premesso, proponeva il suo famoso esempio che potremmo esporre così:
Stoffa | Vino | |
---|---|---|
Inghilterra | 100 | 120 |
Portogallo | 90 | 80 |
Conviene citare ancora le parole di Ricardo per attribuire il significato corretto a quei numeri.
Può darsi che l’Inghilterra si trovi in condizioni tali che per produrre la stoffa abbia bisogno del lavoro di 100 uomini per un anno; mentre, se cercasse di fare il vino avrebbe bisogno di 120 uomini per lo stesso periodo di tempo. […] In Portogallo, la produzione del vino potrebbe richiedere solo il lavoro di 80 uomini, mentre la produzione della stoffa potrebbe richiedere il lavoro di 90 uomini per lo stesso periodi di tempo (Ricardo 1821, cap. VII, p. 93)
Ricardo parlava di quantità prodotte in un anno, ma non parlava di unità di stoffa (metri, pezze ecc.) o di vino (bottiglie, botti ecc.). Immaginava solo che si potessero scambiare le quantità complessive prodotte in un anno, che rimanevano indeterminate. Non si poteva quindi dire alcunché sui prezzi della stoffa in termini di vino o viceversa, ancor meno sui prezzi del vino di un paese in termini di stoffa dell’altro. Ricardo si limitava a ipotizzare che in cambio di un bene prodotto in un paese si potesse ottenere una quantità dell’altro bene pari alla quantità di esso prodotta nello stesso paese. In pratica, nulla osta a intendere che i numeri della tabella siano costi per unità di prodotto e che nello scambio internazionale si ottenga un’unità di vino per un’unità di stoffa (così ad esempio Viner 1937, p. 445). Proseguiva poi mostrando che, in assenza di restrizioni,
-
il Portogallo aveva un vantaggio relativo al suo interno nella produzione del vino (80 uomini contro 90), mentre l’Inghilterra aveva un vantaggio relativo nella produzione della stoffa (100 uomini contro 120);
-
se l’Inghilterra scambiava la sua stoffa con vino portoghese, otteneva con il lavoro di 100 uomini quello che altrimenti avrebbe dovuto produrre con 120; se il Portogallo scambiava il suo vino con stoffa inglese, otteneva con il lavoro di 80 uomini quello che altrimenti avrebbe dovuto produrre con 90. L’Inghilterra risparmiava 20 uomini, il Portogallo ne risparmiava 10, entrambi potevano dedicare gli uomini risparmiati a produzioni aggiuntive.
Ne seguiva non solo che lo scambio conveniva a entrambi, ma anche che a entrambi conveniva specializzarsi nella produzione in cui avevano un vantaggio relativo, perché in questo modo sarebbe aumentata la produzione complessiva. Ricardo proponeva al riguardo un semplice esempio.
Due uomini sono entrambi capaci di fare scarpe e cappelli: uno di essi è superiore all’altro in entrambe le occupazioni, ma nel fare cappelli è in grado di superare il concorrente di un quinto, ossia del 20 per cento, mentre nel fare scarpe è in grado di superarlo di un un terzo, ossia del 33 per cento: non sarà nell’interesse di entrambi che l’uomo più abile si dedichi esclusivamente alla produzione delle scarpe e quello meno abile a quella dei cappelli? (Ricardo 1821, cap. VII, p. 94)
Alla luce di questo esempio, la tabella data sopra può essere interpretata nel senso che, essendo il Portogallo più efficiente dell’Inghilterra nella produzione del vino (80 contro 120 uomini) di quanto lo fosse nella produzione di stoffa (90 contro 100 uomini), era nell’interesse di entrambi che il Portogallo si specializzasse nella produzione di vino, l’Inghilterra in quella di stoffe.
È questa la teoria che viene riproposta – con le modifiche che vedremo – nel primo capitolo del tipico manuale di economia internazionale come una verità inconfutabile: «una delle leggi economiche più importanti e tuttora incontestate» dice Salvatore (2002, p. 40), mentre Krugman e Obstfeld (2007, p. 13) citano Paul Samuelson, secondo cui la teoria del vantaggio comparato sarebbe il miglior esempio di un principio economico che, pur non essendo affatto ovvio, è innegabilmente vero. E ne seguirebbe la convenienza sempre e comunque del libero commercio internazionale. Ma siamo sicuri?
Una prima considerazione scaturisce subito dall’obiezione di Malthus. L’Inghilterra non aveva da temere la dipendenza dall’estero, secondo Ricardo, in quanto era un cliente troppo importante; se avesse liberalizzato le importazioni, altri paesi avrebbero sicuramente aumentato la loro produzione al punto da non poter poi tornare indietro. Perfetto. Ma che dire di paesi più piccoli e più deboli? Quale sarebbe stato, per essi, l’antidoto alla dipendenza dall’estero? La vicenda dell’invasione russa dell’Ucraina ha mostrato come la Russia abbia tentato di usare la dipendenza dei paesi europei dal suo gas a proprio vantaggio, e ci ha così ricordato che si tratta di un aspetto di cui si deve tenere conto.
Perché poi Ricardo ha sostituito il grano della Francia col vino del Portogallo? Ci ha svelato lui stesso il motivo in un altro capitolo. Se l’Inghilterra volesse importare grandi quantità di grano dalla Francia, questa dovrebbe estendere la produzione ricorrendo a terra di peggiore qualità (Ricardo 1821, cap. XXVIII, p. 283) e, come abbiamo visto, ciò comporterebbe una diminuzione dei profitti. Se i profitti inglesi aumentassero grazie all’importazione massiccia di grano francese, ma in Francia i profitti diminuissero, non si potrebbe certo pensare a uno scambio conveniente per entrambi. Non solo: Ricardo notava che, se aumentasse il prezzo del grano francese, aumenterebbe anche il prezzo del grano in Inghilterra e ci sarebbe quindi un effetto sui profitti inglesi tutt’altro che benefico.
Non è ancora tutto. Nel saggio On Protection to Agricolture Ricardo osservava che la coltivazione di terre meno fertili in altri paesi avrebbe fatto aumentare il prezzo del grano estero fino al punto da rendere conveniente coltivare terre peggiori in patria piuttosto che importare. Conseguentemente, con ogni probabilità non si sarebbero importate grandi quantità di grano dall’estero (Ricardo 1822, p. 265). In altri termini, appariva difficile ipotizzare una specializzazione nella produzione di grano.
Ecco allora “il trucchetto” di Ricardo: al grano francese ha sostituito il vino portoghese, il cui prezzo – trattandosi di una merce costosa consumata (nell’Inghilterra di allora) esclusivamente dai ricchi – non incideva sui salari né sui profitti, e così il problema non si poneva.
Si poteva sì pensare a una specializzazione nella produzione di beni di lusso, ma rimaneva comunque il fatto che, se la Francia o il Portogallo si fossero specializzati in una produzione agricola, vino o grano che fosse, e l’Inghilterra ancor più nelle sue produzioni industriali, neanche sotto questo aspetto avrebbero tutti tratto beneficio dallo scambio.
2.1.3 Anch’io sarei liberista, se fossi inglese
In effetti, il resto del mondo rispose semplicemente «no, grazie». La storia dette torto agli economisti classici inglesi, dette ragione a List.
Friedrich List, nato il 6 agosto 1789 a Reutlingen, aveva iniziato da giovane a lavorare nella pubblica amministrazione del regno del Württemberg. Era riuscito a farsi stimare da Karl August von Wangenheim, che era stato nominato ministro del culto dal re Guglielmo I e aveva creato per lui, nel 1817, una cattedra di “teoria e pratica della pubblica amministrazione” (Staatspraxis und Staatswissenschaft) presso l’università di Tubinga. Sia List che Wangenheim sostenevano apertamente una moderna monarchia costituzionale, List aveva anche fondato un giornale, Volksfreund aus Schwaben, in cui auspicava un ampio programma di riforme politiche. Erano però i tempi della Restaurazione post-napoleonica, alla fine del 1817 Wangenheim fu costretto a dimettersi, List si trovò privo di appoggi, il giornale fu chiuso e lui stesso venne arrestato per breve tempo (Hirst 1909, pp. 6-11). Nonostante inizi così tormentati, List riuscì poi a esercitare un’influenza non trascurabile sia in Germania che negli Stati Uniti.
L’unione doganale in Germania
Verso la fine del XVIII secolo, quella che oggi è la Germania era costituita da circa trecento stati e staterelli, formalmente raccolti nel Sacro Romano Impero, che praticavano tariffe doganali non solo contro i vicini, ma anche al loro interno. Si contavano in totale circa 1800 barriere doganali e nella sola Prussia vi erano 67 diverse tariffe locali. Un carico di merci spedito da Königsberg (l’attuale Kaliningrad) a Colonia era soggetto a circa 80 controlli e pagamenti, un viaggiatore doveva attraversare 16 dogane tra Dresda e Magdeburgo (Seidel 1971, p. 4).
Durante le guerre napoleoniche il Sacro Romano Impero crollò e la fisionomia del suo territorio cambiò radicalmente. Inoltre, il forte rallentamento del commercio internazionale aveva fatto sì che non fossero adottate tariffe doganali contro paesi esteri. Dopo Waterloo e il Congresso di Vienna venne istituita una Confederazione Germanica composta da 39 stati, che si scoprirono presto esposti alla penetrazione commerciale inglese. I manufatti d’oltre Manica, grazie alla superiore qualità e al minor prezzo, non trovavano alcun ostacolo e mettevano in seria difficoltà i produttori locali. Per contro, l’esportazione di prodotti agricoli tedeschi in Inghilterra veniva fortemente limitata dalla Corn Law del 1815 (Hirst 1909, pp. 12-13).
La Prussia reagì per prima a tale situazione, abolendo le tariffe interne nel 1818 e sostituendole con alti dazi sulle merci importate ed esportate. Altri stati esitavano, perché le tariffe costituivano le loro entrate più importanti. Nell’aprile del 1819 List si trovava a Francoforte in occasione della Fiera di Pasqua. Vi trovò mercanti e industriali di ogni parte della Germania, che avevano in animo di indirizzare alla Dieta della Confederazione una petizione per chiedere sostegno alle loro attività. List riuscì a fondare un’Unione dei Mercanti e Industriali Tedeschi, costituita formalmente il 18 aprile, e a far firmare un documento che chiedeva l’abolizione delle tariffe interne, l’istituzione di un’unica barriera doganale verso l’estero per tutta la Germania, ritorsioni contro le tariffe imposte da altri (Hirst 1909, pp. 13-14).
La Dieta rigettò la proposta, ma si trattava comunque dei primi passi di un percorso che, per quanto travagliato, doveva poi portare nel 1834 alla nascita dell’Unione Doganale tedesca (Zollverein) — libera circolazione delle merci tra gli stati aderenti, una comune barriera doganale verso l’estero — e poi nel 1871 all’unificazione politica nell’Impero tedesco.
Nel frattempo List, eletto deputato della città natale alla fine del 1820, iniziò subito a proporre una riduzione delle tasse nel Württemberg. Venne arrestato, destituito, processato e condannato ai lavori forzati. Si rifugiò allora prima a Strasburgo, poi a Baden, dove fu raggiunto dalla famiglia. Nel 1823 visitò Parigi e incontrò il Marchese di La Fayette, che era stato invitato dal presidente James Monroe a visitare gli Stati Uniti e gli propose di andare con lui. List non accettò subito l’invito, preferì recarsi in Inghilterra e poi tornare nel Württemberg. Arrestato, poi espulso, accettò finalmente l’invito di La Fayette e nel 1825 lo raggiunse negli Stati Uniti, dove poté conoscere molti esponenti politici di primo piano.
Il protezionismo dell’Unione
Gli Stati Uniti avevano scelto George Washington come loro primo presidente nel 1789. Allora gli stati erano solo 13, le comunicazioni interne erano lente per la scarsità di strade e di canali, il 90% delle famiglie si dedicava all’agricoltura. Nel sud dominavano le piantagioni di cotone con i loro schiavi, mentre nel nord vi era una modesta attività manifatturiera di carattere artigianale (concerie, falegnamerie, lavorazione del rame, del ferro e dell’acciaio ecc.), soprattutto in Pennsylvania. I commercianti di New York e del New England esportavano le eccedenze agricole e importavano beni di lusso e manufatti non prodotti all’interno (Dewey 1915, pp. 76-79).
Uno dei primi provvedimenti del nuovo stato federale era stato l’istituzione di dazi sulle merci importate, con un minimo del 5% e un massimo del 15%. I dazi vennero ritoccati più volte negli anni successivi, anche perché su pressoché ogni merce c’era chi era interessato a importare a basso prezzo e chi desiderava invece proteggere la propria produzione.7 In ogni caso, i dazi rimanevano di modesta entità perché dovevano servire soprattutto a sanare le finanze pubbliche, messe a dura prova dalla lotta per l’indipendenza. Si temeva che tariffe troppo elevate avrebbero scoraggiato le importazioni e alimentato il contrabbando, risultando alla fine poco efficaci (Dewey 1915, p. 81; Irwin 2004).
La situazione era cambiata dopo la guerra anglo-americana del 1812-1815. Durante la guerra gli inglesi avevano attuato un blocco navale che aveva fatto crollare i commerci e costretto gli Stati Uniti ad aumentare la produzione industriale interna.8 Dopo la guerra, però, le importazioni di manufatti inglesi erano aumentate vertiginosamente, fino a livelli mai raggiunti in passato, mettendo in serio pericolo i produttori americani, in particolare le nuove industrie tessili. Il governo aveva reagito imponendo nel 1816 dazi fino al 25% sulle merci che potevano ormai essere prodotte all’interno in quantità sufficienti, dazi più bassi su quelle che si sarebbero dovute comunque importare in qualche misura. Si trattava di un provvedimento chiaramente gradito dagli stati industriali del nord, ma anche di una decisione assunta per far fronte all’emergenza finanziaria postbellica. Non stupisce, pertanto, che 23 dei 57 rappresentanti degli stati del sud votassero a favore. Addirittura per la Carolina del Sud – stato su cui torneremo presto – votarono a favore 4 rappresentanti su 7 (Dewey 1915, pp. 161-163).
Negli anni successivi, tuttavia, emerse sempre più netto il contrasto tra gli interessi economici e le conseguenti posizioni politiche del nord e del sud. Il nord invocava protezione perché le sue industrie non potevano ancora reggere la concorrenza delle più efficienti aziende inglesi, ma i dazi si traducevano in un aumento del costo dei manufatti per gli agricoltori del sud (Dewey 1915, p. 173).
I dazi del 1816 proteggevano soprattutto l’industria del cotone. Nel 1818 si aumentarono anche i dazi sui prodotti siderurgici e nel 1824 vennero colpiti molti altri prodotti importati, quali piombo, vetro, lana, seta, lino, canapa. L’esito del voto alla Camera dei Rappresentanti nel 1824 mostrava chiaramente i diversi interessi in gioco. Votarono a favore stati industriali come la Pennsylvania e due degli stati più occidentali, Tennessee e Kentucky, interessati a proteggere la coltivazione della canapa, mentre i voti contrari prevalsero di misura tra i commercianti del New England, con 15 rappresentanti a favore e 23 contrari, e nettamente tra gli agricoltori del sud, con un solo rappresentante a favore e 57 contrari (Dewey 1915, pp. 174-175).
Il confronto polemico tra i due schieramenti si svolgeva anche fuori del Congresso attraverso articoli di giornali, opuscoli e libri. Il più autorevole esponente dei liberisti era Thomas Cooper, docente di chimica e di economia presso l’Università della Carolina del Sud, di cui era presidente, e autore di un manuale di economia politica (Cooper 1826). Uomini come Cooper erano in grado di presentare gli interessi del sud come diretta conseguenza dei principi dell’economia politica dominante, da Smith (1776) a Say (1819, tradotto in inglese nel 1821). I protezionisti erano disarmati su questo fronte. Fu così che Charles J. Ingersoll, vice presidente della Società della Pennsylvania per la Promozione delle Manifatture e della Arti Meccaniche (Pennsylvania Society for the Promotion of Manufacturers and the Mechanic Arts), chiese a Friedrich List un contributo teorico.
A fine luglio 1827 si tenne a Harrisburg, capitale della Pennsylvania, un convegno di sostenitori del protezionismo, a cui List partecipò affiancando Ingersoll. Il convegno suscitò grande interesse e fu così anche per undici lettere indirizzate da List a Ingersoll, pubblicate sulla National Gazette di Philadelphia dall’agosto al novembre del 1827 e subito riproposte da decine di giornali.9 Le lettere vennero poi raccolte in un volume a cura della Pennsylvania Society (Notz 1926, pp. 253-255),
Nelle lettere List (1827) difendeva la validità della protezione doganale su un piano teorico. I principali passaggi della sua argomentazione erano:
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Filosofi e filantropi hanno auspicato che si stabilisse una pace perpetua grazie a un governo mondiale sovranazionale;10 contestualmente, Adam Smith ha costruito un sistema di economia basato sul singolo individuo e poi sull’umanità tutta, come se il mondo intero fosse un’unione simile a quella degli Stati Uniti d’America, un’unione nel cui ambito si avrebbe ovviamente piena libertà di commercio. La realtà è ben diversa, in quanto esistono molteplici nazioni organizzate in stati che sono in rivalità, spesso in guerra, tra di loro. L’economia di Smith non è un’economia politica, è l’economia cosmopolitica di un ipotetico futuro, mentre una vera economia politica deve tenere conto delle profonde differenze tra gli stati nazionali e dei loro specifici interessi.11
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Dal punto di vista di un’economia politica correttamente intesa, la potenza è anche più importante della ricchezza, perché uno stato ricco ma debole può perdere in un solo giorno quanto ha costruito in anni. Lo stato deve promuovere ogni iniziativa utile ad aumentare ricchezza e potenza. In particolare, il governo USA deve difendere i traffici via mare con una marina militare, deve agevolare i commerci interni costruendo strade ponti e ferrovie, deve proteggere la proprietà intellettuale con leggi sui brevetti. Deve anche proteggere le industrie nascenti con appropriate tariffe doganali. L’economia nazionale inglese ha come obiettivo quello di monopolizzare la produzione industriale mondiale, di essere così predominante; l’economia nazionale americana vuole invece essere indipendente. È chiaro che obiettivi così diversi richiedono politiche diverse. Agli inglesi conviene la libertà di commercio, cioè la libertà di invadere i mercati tedesco e americano con i loro prodotti dopo le guerre napoleoniche e la guerra anglo-americana. Per gli USA e per la Germania ciò comporterebbe la distruzione della capacità produttiva faticosamente costruita durante il blocco dei commerci nel periodo bellico.
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Ignorando le specifità nazionali, Smith e Say hanno ridotto l’oggetto dell’attività economica al guadagno materiale,12 hanno ritenuto che presupposto essenziale ma unico del lavoro sia l’accumulazione di capitali intesi come scorte, o fondi, di viveri, materiali ed arnesi. Per List invece il vero obiettivo dell’attività economica è lo sviluppo delle forze produttive,13 che presuppongono non solo un capitale naturale (capital of nature, risorse naturali) e un capitale materiale (capital of productive matter, quello considerato da Smith), ma anche e soprattutto un capitale intellettuale (capital of mind, costituito sia dalle competenze e capacità dei singoli, sia dalle condizioni civili e politiche della nazione).14 Lo sviluppo del capitale intellettuale richiede che si affianchino all’agricoltura l’industria e il commercio. Gli Stati Uniti, che hanno enormi potenzialità in termini di risorse naturali e umane, non devono ridursi a esportatori di materie prime per l’industria inglese, ma devono mirare a eguagliare e superare la capacità produttiva inglese, proteggendo le imprese con adeguate tariffe doganali fino a che possano competere con quelle inglesi.
Nel complesso, si trattò del primo esempio di lobbismo organizzato su scala nazionale (Jackson 2010) e si dimostrò molto efficace, al punto che l’anno successivo, nel 1828, vennero approvati dazi piuttosto elevati. Sulla lana grezza, ad esempio, si applicavano sia un dazio ad valorem del 40%, sia un dazio specifico di 4 centesimi a libbra (Dewey 1915, p. 179).
La Carolina del Sud protestò energicamente, arrivò a minacciare la secessione e comunque, nel novembre del 1832, dichiarò nullo il provvedimento. La crisi si risolse l’anno successivo grazie a un compromesso: sarebbero stati ridotti tutti i dazi superiori al 20%, per venire incontro agli stati del sud, ma gradualmente in dieci anni, in modo da consentire agli industriali del nord di adeguarsi (Dewey 1915, pp. 185-187; Taussig 1899, pp. 110-111). Come ben noto, peraltro, il conflitto era destinato a riaccendersi e avrebbe portato alla guerra di secessione (1861-1865) e alla definitiva vittoria del nord protezionista (v. Taussig 1899, pp. 411-418, per i dati su import, export e relative tariffe fino al 1897).
Anche in questa caso, quindi, List si trovò in piena sintonia con l’effettivo sviluppo economico, al quale dette un contributo teorico non trascurabile.15 Soprattutto, dette voce al resto del mondo. Nel XIX e nel XX secolo il protezionismo è stata la politica commerciale dominante. Il Regno Unito è stato l’unico paese a non imporre dazi sulle importazioni di frumento o di prodotti industriali, e solo nel periodo tra l’abolizione della Corn Law e la prima guerra mondiale (Bairoch 2003, Tabelle 3.2 e 3.3). Altri paesi hanno invece seguito gli insegnamenti di List, hanno visto con lui nel liberismo l’ideologia di chi vuole mantenere una posizione dominante, hanno adottato tariffe doganali più o meno elevate per proteggere le loro industrie e sono giunti infine a eguagliare e anche a superare l’industria inglese.
2.1.4 La teoria come insegnata oggi
La teoria del vantaggio comparato (detta anche teoria dei costi comparati) ha avuto una storia un po’ tormentata. Mi limito a ricordare che venne riproposta subito da James Mill (1821, pp. 86-87) con un esempio strutturato diversamente che comportava un vantaggio per uno solo dei due paesi,16 mentre Pareto (1906, pp. 467-469) discusse l’esempio delle scarpe e dei cappelli mostrando che, dopo la specializzazione, era possibile che la produzione di cappelli diminuisse invece di aumentare.17 La versione moderna della teoria è attenta a evidenziare a quali condizioni ed entro quali limiti la teoria “funziona” e, a questo scopo, rende esplicito un parametro del tutto ignorato da Ricardo: la ragione di scambio, il rapporto al quale i beni vengono scambiati sul mercato internazionale.
Supponiamo che vi siano due paesi, 1 e 2, e due beni A e B. Indichiamo con \(a_1\) e \(a_2\) i costi unitari di produzione del bene A, rispettivamente, nei paese 1 e 2; con \(b_1\) e \(b_2\) i costi unitari di produzione del bene B nei due paesi. Potremmo avere ad esempio:
A | B | |
---|---|---|
1 | \(a_1=100\) | \(b_1=200\) |
2 | \(a_2=90\) | \(b_2=45\) |
Naturalmente assumiamo assenza di mobilità di lavoro e capitale tra i due paesi, come già aveva fatto Ricardo. Assumiamo inoltre che i costi di produzione siano espressi in una qualche unità di misura comune ai due paesi e siano costanti (non dipendenti dalla quantità prodotta).
Indichiamo ora con \(x\) la quantità prodotta del bene A e con \(y\) quella del bene B. Nel paese 1 si ha
\[y = \dfrac{a_1}{b_1}x = 0.5x\] in quanto il costo unitario di produzione del bene B è il doppio di quello di A, mentre nel paese b si ha
\[y=\dfrac{a_2}{b_2}x=2x\] come rappresentato nella Figura 2.1, adattata da Gandolfo (2014), p. 15.

Nella figura compare anche la semiretta
\[y=Rx\]
dove \(R\) è la ragione di scambio, la quantità del bene A che occorre esportare per poter importare un’unità del bene B.
Secondo la teoria, al paese 1 conviene specializzarsi nella produzione del bene A (quello con costo di produzione minore rispetto al bene B). Si vede infatti che, se esporta la quantità \(OA\) di \(x\), ottiene in cambio la quantità \(OF=AC\) di \(y\), mentre se avesse rinunciato a produrre \(OA\) avrebbe potuto produrre solo la quantità \(OE=AB\) di \(y\). Contestualmente, il paese 2 ottiene \(OA=FC\) esportando solo \(OF\), mentre avrebbe dovuto rinunciare a produrre \(OG=AD\) di \(y\) per poter produrre \(OA=GD\) di \(x\).
Dalla Figura 2.1 risulta evidente che entrambi i paesi traggono vantaggio dallo scambio solo se la semiretta \(y=Rx\), che esprime le possibilità di scambio, si trova tra le due semirette a tratto continuo, che esprimono le possibilità di produzione interna, cioè solo se \(a_1/b_1<R<a_2/b_2\). A sua volta, questo richiede che le due semirette a tratto continuo siano distinte. Se le due semirette a tratto continuo coincidono non c’è alcuna convenienza nello scambio, mentre se la semiretta \(y=Rx\) coincide con la semiretta \(y=\frac{a_1}{b_1}x\) lo scambio conviene solo al paese 2, se coincide con la semiretta \(y=\frac{a_2}{b_2}x\) lo scambio conviene solo al paese 1.18
Per il resto, le esposizioni moderne semplicemente ignorano sia la distinzione di Ricardo tra beni necessari e beni di lusso, sia le obiezioni sollevate in origine contro la presunta convenienza per tutti del libero commercio estero.19
Ricardo distingueva nettamente tra beni di consumo necessari (tipicamente il grano) e beni di lusso. Da un lato riteneva preferibile importare a buon prezzo il grano per tenere bassi i salari, dall’altro si rendeva conto – come abbiamo visto – dell’impossibilità di giungere a specializzazioni nella produzione di beni di consumo necessari, tanto che nel suo esempio sostituì il grano col vino, un bene di lusso. Gli autori moderni sembrano invece non attribuire alcuna importanza ai beni prodotti e scambiati: Gandolfo (2014, cap. 2) ripropone la stoffa e il vino di Ricardo, Salvatore (2002, cap. 2) usa stoffa e frumento (wheat), Krugman e Obstfeld (2007, cap. 2) partono da formaggio e vino per poi proporre mele e banane negli esercizi.
Se però si trascura il fatto che alcuni beni possono essere di vitale importanza, si ignora il rischio di dipendere eccessivamente da altri paesi per essi. Si trattava dell’obiezione di Malthus e basta ricordare lo shock petrolifero del 1973 o il ricatto del gas russo nel 2022 per capire quanto concreto sia tale rischio.
Inoltre, la specializzazione nella produzione agricola non può essere vista come un vantaggio, in quanto comporta una rinuncia allo sviluppo industriale. Abbiamo visto che molti paesi, gli Stati Uniti in testa, hanno dato ascolto a List, hanno rifiutato la specializzazione loro proposta dagli economisti inglesi e dai loro seguaci. È paradossale che da qualche tempo siano invece gli economisti americani a proporre le ricette combattute energicamente dai loro avi.
E così, mentre la storia ha dato ragione a List, i manuali di economia internazionale preferiscono inseguire l'ideale "cosmopolitico" di un mondo in cui tutti si vogliono bene, in cui il libero commercio internazionale giova a tutti e non esistono rivalità.
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Per “grano” (corn) si intendeva un insieme di cereali che comprendeva non solo il frumento, ma anche altri cereali tra cui avena e orzo.↩︎
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63 scellini per quarter. Il quarter equivaleva a circa 290 litri ed era una misura usata sia per liquidi che per aridi.↩︎
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Per le opere di Ricardo e di List la pagina si riferisce alla traduzione italiana indicata nella bibliografia, se presente.↩︎
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Per Ricardo il salario reale è pari a quanto occorre per garantire la sussistenza dei lavoratori. Il grano è la voce principale del bilancio di sussistenza; se il suo prezzo aumenta, fermo il salario reale, ferma cioè la quantità di grano che il lavoratore deve acquistare, aumenta necessariamente anche la quantità di denaro di cui il lavoratore deve poter disporre. L’aumento del prezzo del grano si traduce quindi in un aumento del salario nominale e in una diminuzione dei profitti.↩︎
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80 scellini (4 sterline) per quarter. L’approvazione della legge, che favoriva i proprietari terrieri, suscitò proteste di piazza e la crescente opposizione degli industriali. Nel 1838 venne fondata l’Anti Corn-Law League, che ottenne l’abolizione della legge e la liberalizzazione dell’importazione di grano nel 1846.↩︎
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Ricardo morì poi l’11 settembre del 1823, all’età di 51 anni, per le complicazioni di un’infezione a un orecchio.↩︎
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Ad esempio, il New England si opponeva ai dazi sulla canapa, per tenere bassi i costi del cordame necessario alla costruzione di navi, ma i coltivatori dell’Ovest li chiedevano per proteggere la loro produzione (Dewey 1915, p. 81).↩︎
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Ad esempio, il numero di fusi nei cotonifici era aumentato da 8000 nel 1808 a 31000 nel 1809, poi a 130000 nel 1815 (Taussig 1899, p. 28).↩︎
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List accenna a una dodicesima lettera sia nella undicesima, sia nella Prefazione alla sua opera maggiore (List 1841), ma non c’è traccia di questa ulteriore lettera.↩︎
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List cita solo Castel de Saint-Pierre (1713), ma è facile pensare anche almeno a Bentham (1789), a Rousseau (1761), a Kant (1795).↩︎
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List critica Smith, Say e Cooper. Non considera Ricardo, sul quale darà in seguito un giudizio piuttosto negativo: Ricardo crede che la rendita sia il prezzo di una presunta fertilità naturale del terreno – mentre invece essa cresce «con i progressi della cultura e della popolazione, con l’aumento dei capitali intellettuali e materiali» – e «ha costruito su quest’idea tutto un sistema» (List 1841, p. 192).↩︎
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Smith (1776) non dà una definizione esplicita di ricchezza ma fin dalle prime righe dell’Introduzione pone l’accento sulle «cose necessarie e comode della vita» prodotte dal lavoro e sul «rapporto tra quel prodotto […] e la quantità di persone che lo devono consumare». Nel capitolo III del II libro definisce poi come lavoro produttivo quello che «si fissa e si realizza in alcuni oggetti o merci destinate alla vendita, che durano per qualche tempo almeno dopo che il lavoro dell’operaio è terminato».↩︎
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List (1841, p. 108) dirà che il potere di creare ricchezza è infinitamente più importante della ricchezza in sé.↩︎
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List anticipa così il concetto di capitale umano, introdotto oltre un secolo dopo da Becker (1964), ma anche alcuni temi dell’istituzionalismo economico.↩︎
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Tralascio, per brevità, il contributo dato da List allo sviluppo della rete ferroviaria tedesca dopo il suo ritorno in Germania.↩︎
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L’“errore” di James Mill ha una curiosa storia, ricostruita da Sraffa (1930) dopo un articolo di Einaudi (1929).↩︎
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Pareto considera un operaio 1, un operaio 2 e due merci A e B. Ipotizzando che l’operaio 2 produca 30 di ciascun bene, se l’operaio 1 produce un quinto di più del bene A e un terzo di più del bene B, produce rispettivamente 36 e 40, per una produzione totale di 66 A e 70 B. Se l’operaio 1 si specializza nella produzione di B e l’operaio 2 in quella di A, la produzione totale sarà 60 A e 80 B, con una diminuzione della produzione di A.↩︎
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Era questo l’errore commesso da James Mill, cui si è accennato sopra.↩︎
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Gandolfo (2014), Krugman e Obstfeld (2007) e Salvatore (2002) ignorano del tutto sia Malthus che List.↩︎